L’umiltà di Francesco

In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».

Gesù loda il Padre perché ha nascosto le cose del cielo ai dotti e le ha rivelate ai piccoli. Lode al Padre quindi, ma anche un plauso a questi piccoli di cui Gesù si compiace. Chi sono?
Direbbe Socrate alla sua maniera: son quelli che sanno di non sapere. Cioè coloro, la cui umiltà, si pone come limite insuperabile di fronte alla conoscenza di Dio. La Verità con la V maiuscola non è per loro una estenuante conquista intellettuale, ma semplicemente un dono da accogliere e solo un cuore umile entra nelle biblioteche divine.
Oggi facciamo memoria di un campione di umiltà: San Francesco d’Assisi.
Vogliamo allora che sia lui a spiegarci come gli siano state rivelate le cose di Dio. Lo vorrei fare riflettendo su una parola, un’ espressione che Francesco ha coniato e inserito in quel capolavoro spirituale che è il Cantico delle creature. Questa espressione così elegante ma così arcana e distante dal nostro linguaggio da sola rende tutto un commento intorno alla conoscenza di Dio. Ma vi tengo in sospeso e vi chiedo di scoprirla leggendo le prime righe della preghiera

Altissimu, onnipotente, bon Signore,
Tue so’ le laude, la gloria
e l’honore et onne benedizione.
Ad Te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu Te mentovare.

Proviamo ora a gustare insieme questo preambolo che ha già il sapore della lode perfetta.
A chi si rivolge la lode? E’ chiaro: a Dio!
Ma Dio è l’inaccessibile. E qui Francesco tira fuori la perla linguistica, l’espressione di cui vi accennavo. “Nessun homo è degno te mentovare”, cioè dal latino “avere in mente” o meglio chiudere negli schemi mentali. Francesco denuncia la tentazione di ogni religioso: il nominare Dio invano. Cioè far dire a Dio ciò che voglio, ciò che so, ciò che ho imparato, come se questo fosse il tutto di Dio. Questo ingabbiarlo nei nostri schemi si chiama bestemmia, il peccato religioso di ogni tempo che sotto le apparenze più virtuose vuol possedere niente di meno che Dio! A questo punto è meglio essere atei. Meglio le bestemmie da stadio piuttosto che quelle da sagrestia.
Francesco invece va incontro alla massima povertà che esista davanti a Dio: quella di un’anima che mette tutta la sua gioia nel fatto che Dio solo sia Dio. Nessun uomo può dire il Mistero. Ma Francesco non tace, non può rinunciare alla sua ambizione più alta, quella di lodarlo.
Così la lode dell’Altissimo diventa quella delle creature.
“Cum tutte le Tue creature” vuol dire anzitutto che, di fronte all’Altissimo, che è inaccessibile, l’anima accetta di prendere posto fra le creature. E qui entra in gioco l’umiltà di cui dicevamo prima.
Un immenso slancio verso l’alto, unito alla discesa verso le profondità e una comunione con quanto esiste di più umile. Una scelta che rivela l’inclinazione di un’anima: un bisogno di immersione.
La comunione francescana con la natura, infatti, è prima di tutto l’espressione di uno spogliamento profondo di sé. Di fronte all’Altissimo che nessun uomo può «mentovare», Francesco d’Assisi si colloca volutamente dalla parte delle creature. Prende posto fra loro e fraternizza con le più umili di loro. E umiliandosi si rende simpatico ed empatico e soprattutto attira lo sguardo benevolo di Dio che si compiace nel rivelargli quei misteri divini chiusi invece ai dotti e ai sapienti orgogliosi.

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